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“Non me la bevo”, il nuovo libro di Michele Antonio Fino.

Lorenzo Biscontin

Michele Antonio Fino nel mondo del vino è tante cose. Innanzitutto è un appassionato, poi è anche vignaiolo ed infine è Professore Associato di Fondamenti del Diritto Europea presso l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.

Queste tre anime si ritrovano tutte nel suo libro “Non me la bevo – Godersi il vino consapevolmente senza marketing né mode” edito da Mondadori e da pochi giorni in libreria.

Dell’appassionato c’è lo stile chiaro e diretto con cui è stato scritto, che rende la lettura piacevole e comprensibile a tutti.

Del vignaiolo c’è la conoscenza pratica degli argomenti di cui parla, che conferisce concretezza agli argomenti trattati nei 10 capitoli in cui si divide il libro.

Dello scienziato ricercatore c’è la curiosità per andare a fondo delle cose, oltre luoghi comuni, l’approccio “laico” alle questioni che vengono affrontate senza pregiudizi ed il rigore formale nel definire e riportare i fatti.

“Non me la bevo” infatti è un libro in cui Michele Antonio Fino affronta credenze e convinzioni che formano la percezione odierna del vino da parte di una grande maggioranza di consumatori e le analizza nel merito, spesso smentendole. Sicuramente smontandole nella loro struttura attuale.

Realizza quello che oggi si chiamerebbe “debunking” dello “storytelling” del vino, ovvero applica a questo il “provare e riprovare” su cui si fonda il metodo scientifico fin dai tempi di Galileo Galilei.

Abbiamo intervistato Michele Antonio Fino per parlare del suo libro e del vino in generale.

Questo libro perché e per chi?

Questo libro è il distillato di 25 anni di interesse per il mondo del vino che è cominciato con la conoscenza dei vitigni e dei produttori, e proseguito con lo studio della legislazione vitivinicola che ho insegnato per l’università di Torino alcuni anni ad Alba e infine si è saldato con le ricerche in tema di origine e di schemi di qualità che conduco da quando sono all’università di scienze gastronomiche di Pollenzo.

L’esigenza che sentivo era quella di realizzare un volume che potesse offrire quelle informazioni che raramente risultano disponibili per coloro che hanno un interesse nei confronti del vino ma si sentono oggettivamente un po’ manipolati da una narrazione edulcorata, spesso accondiscendente se non addirittura farcita di notizie con poco o nessun fondamento.

Non è un libro per chi cerca i consigli per gli acquisti quanto un libro per districarsi fra i consigli per gli acquisti!

“La verità vi renderà liberi”. Il debunking può migliorare la credibilità del settore del vino?

Sarebbe estremamente arrogante rispondere che il debunking migliorerà la credibilità del settore vino ma a mio avviso il debunking per lo meno consentirà a quei produttori che sono meno inclini a prendere delle scorciatoie di sviluppare strategie di medio lungo periodo che, a mio modesto avviso, sono dotate delle migliori prospettive.

Questo perché è la relazione che si instaura tra un produttore che rinuncia a certi mezzucci e un consumatore finalmente davvero libero di scegliere, è una relazione più stabile e al riparo dalle mode.

Quali sono i 3 falsi miti del vino da conoscere per goderselo con consapevolezza?

Primo mito: nessun vino di oggi si fa come 200 anni fa semplicemente perché in mezzo c’è stato Pasteur e anche il produttore che rinuncia a degli strumenti enologici non può prescindere e in effetti non prescinde dalla conoscenza che si è accumulata a partire dal 1860. Non c’è bisogno di scomodare Jean Paul Sartre per osservare che anche il rifiuto di una opzione, sia essa una filtrazione, un gruppo frigorigeno ho un agente chiarificante, non può prescindere dall’opzione che viene per l’appunto rifiutata e quindi da questa è influenzata se non addirittura determinata.

Secondo mito: non è possibile sostenere in alcun modo credibilmente che il vino faccia bene tout court, perché si tratta di un alcolico e perché se non si specifica qual è il concetto di salute a cui si fa riferimento si sta oggettivamente minando la credibilità del settore e la libertà di scelta del consumatore.

Terzo mito: le grandi produzioni viticole italiane non sono affatto ultrasecolari anche quando richiamano duchi, imperatori o addirittura Plinio il Vecchio. Il primo, peraltro sinteticissimo, disciplinare di produzione di un vino a denominazione italiano è quello del Marsala nel 1950. Come noto, la prima legge doc organica è del 1963 e la prima DOCG del paese è addirittura del 1980. Prima di allora non abbiamo mai avuto una tradizione di regolamentazione della produzione complessiva e vincolante. Certo, ci sono tanti documenti riguardanti singole zone o singoli aspetti di una produzione nel corso dei secoli ma non si possono considerare in alcun modo né antesignani né passi sul percorso che abbiamo intrapreso soltanto 60 anni fa.

Qual’è la principale minaccia per il vino oggi?

Io vedo due grandi minacce una di tipo strategico e una, se vogliamo, più tattica.

La minaccia di tipo strategico è quella che continua ad insistere su notizie poco accurate, narrazioni semplicistiche o addirittura invenzioni di sana pianta. Promuovere il vino in questo modo espone al rischio di venire scoperti e conseguentemente di perdere di colpo tutta la propria credibilità. Se il discorso fatto in questo modo dovesse risultare troppo teorico e poco intuitivo, bastino due parole per dare l’idea: pandoro e Ferragni.

La minaccia di tipo tattico, individuata nel libro, è quella di non avere pensato il sistema produttivo italiano secondo una onesta e ragionevole suddivisione tra le produzioni destinate al consumo quotidiano e le denominazioni di origine, da riservare a quei territori e a quelle tradizioni produttive oggettivamente capaci di esprimere una diversità meritevole di particolare tutela.

Questo difetto tattico si traduce oggi nelle oltre 500 denominazioni di origine presenti nel Paese, che diventano migliaia di tipologie di vini, poiché in Italia è molto raro che una denominazione riguardi un solo vino prodotto da un solo vitigno, e nell’impossibilità per i produttori di vino quotidiano, destinato ad essere semplicemente bianco rosso o rosato di specificare il vitigno che utilizzano per la loro produzione. Basta osservare quanto fatto in Francia per rendersi conto di come, invece, oltralpe si sia fatta una scelta molto radicale ma al tempo stesso capace di offrire opportunità di marketing nuove, e molto efficaci, sui mercati meno maturi lavorando sui Vins de France con il nome del vitigno ben chiaro in etichetta.

Quale la principale opportunità?

L’opportunità più consistente per il vino, oggi, continua ad essere la sua intrinseca specificità, trattandosi dell’unico alcolico di consumo di massa che non deriva da una costruzione attraverso ingredienti mescolati e variati per andare semplicemente incontro al gusto dei consumatori, ma dalla trasformazione di un unico ingrediente in un prodotto che attraverso una fermentazione naturale acquisisce caratteristiche peculiari e molto diversificate tra le diverse tipologie.

In questo biunivoco legame, tra un unico ingrediente e un unico prodotto che ne deriva, sta la specialissima relazione che il vino ha con l’origine delle uve quando si tratta di una denominazione ma anche il corredo organolettico che deriva ad un vino comune dal fatto di essere prodotto utilizzando merlot oppure marzemino oppure refosco.

Il vino è un caleidoscopio possibile di gusti e aromi, che favorisce lo sviluppo di una cultura legata alla degustazione, che può contare su una varietà pressoché infinita, e presenta anche un tenore alcolico compatibile con un consumo moderato.

Quest’ultimo è la condizione imprescindibile perché si eserciti la libertà di scelta se consumare o meno quello che Veronelli chiamava l’odoroso liquido.

Trovate “Non me la bevo” in versione cartacea nelle librerie fisiche e digitali e, in queste ultime, anche in versione e-book.

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