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Sempre le stesse cose, tutti quanti. Però cambiare si può; volendolo.

Lorenzo Biscontin

Copio dal catalogo di una cantina:

“Dal 20XX l’etichetta “Xxxxyyyzzz” rappresenta i nostri vini più prestigiosi. Sono il risultato di un intenso lavoro che inizia con una minuziosa preparazione in ogni dettaglio a partire dal vigneto fino alla vinificazione. Le uve provengono dai migliori vigneti. Dopo una vinificazione attenta, prevalentemente in barrique per 18 mesi, le Riserve affinano altri 12 mesi in bottiglia”.

Il nome della cantina non importa, perché è un testo che si ritrova sostanzialmente simile nei cataloghi, siti, post della grandissima parte delle cantine italiane. Da almeno 10 anni a questa parte (lo so: è una stima prudente).

Sempre le stesse cose, tutti. L’annoso problema dell’impossibilità per le cantine di differenziarsi in un settore frammentato e dove le denominazioni, per definizioni livellanti al proprio interno, giocano un peso rilevante. Tutto vero, tutto giusto.

Ma se invece di impossibilità fosse anche, soprattutto, incapacità? Il testo qui sopra prima ancora di essere comune, banale, e quindi indifferenziante, è vuoto di significato.

Analizziamolo frase per frase

“Dal 20XX l’etichetta “Xxxxyyyzzz” rappresenta i nostri vini prestigiosi dell’azienda”

Qui ci sono informazioni oggettive che mi dicono come questa etichetta (che non arriva al livello di marca già nelle intenzioni del produttore, rimane, per così dire, una figurina) e quella in cui trovo i migliori vini della cantina. Bene.

“Sono il risultato di un intenso lavoro che inizia con una minuziosa preparazione in ogni dettaglio a partire dal vigneto fino alla vinificazione”

Ma guarda un po’, io invece pensavo che ve ne sbatteste altamente, lavoraste quando ne avevate voglia, facendo le cose alla carlona. Oppure che vi preoccupaste solo del vigneto e non della vinificazione, o viceversa. Soprattutto immaginavo che se questo fosse il vostro modus operandi veniste a dirmelo.

“Le uve provengono dai migliori vigneti”

Il che volendo anche ci sta, peccato però che la cantina abbia anche una linea con vini da singolo vigneto (cru) e quindi il concetto un po’ traballa. Senza scordarsi che così sis ta automaticamente affermando che gli altri vini vengono dai vigneti peggiori. Che ci sta anche questo, è logico; però non suona così bene.

“Dopo una vinificazione attenta, prevalentemente in barrique per 18 mesi, le Riserve affinano altri 12 mesi in bottiglia”

Miiii … pensavo che la vinificazione la faceste alla c…zo di cane! Scusate la volgarità, ma non ho resistito. Cosa significa “… prevalentemente in barrique per 18 mesi”? Che una parte preponderante del mosto (quanto? Il 60%? Il 90%) fa la fermentazione integrale all’interno della barrique e poi continua lì l’affinamento per 18 mesi? Che una parte minoritaria del vino (quanto? Il 5%? Il 35%?) affina in vasca (di che tipo? Acciaio? Cemento?) ed il resto in barrique?

Direte “Facile criticare, ma cosa si può fare di diverso e migliore?” Secondo me un sacco di cose. Eccovi due esempi.

Trasparenza e precisione.

Se sto dando informazioni tecniche devo farlo in modo trasparente, completo e preciso. Se ho paura di essere noioso evito le informazioni tecniche e parlo d’altro. Altrimenti i discorsi diventano fuffa e non danno le informazioni che interessano all’audience, nel migliore dei casi, oppure fanno venire dei dubbi sulla competenza e affidabilità della cantina.

Sulla trasparenza, ad esempio. Dico che faccio la vendemmia a mano in più passaggi per scegliere solo i grappoli perfetti alla maturazione ideale? Benissimo, allora invece di mostrarti la foto dei grappoli portati in cantina ti mostro quelle dell’uva che ho scartato . Tutti gli studi sullo story telling dimostrano come le storie di superamento dei problemi siano quelle che creano più interesse, coinvolgimento e credibilità. E’ una cosa che in realtà sappiamo fin da bambini perché le fiabe finivano “… e vissero felici e contenti”, DOPO che i protagonisti avevano attraversato una serie di vicissitudini.

Nel vino “Naquero felici e contenti e … continuarono a vivere felici e contenti”. Il Paradiso in terra, se non fosse per “il duro lavoro”, “l’impegno”, “la dedizione” legata alla produzione del vino.

E questo mi porta al secondo esempio.

Il vino lo fa il vigneto, io non faccio niente: è bravo lui.
Uno dei miei rammarichi come consulente del settore vitivinicolo è non essere riuscito a convincere nessun cliente a posizionarsi secondo questo concetto. Ne ho avuti almeno tre che potevano.

Uno mi diceva “La certificazione biologica non mi interessa perché sono costi, un sacco di carte ed un vincolo se per caso mi capita un’annata brutta dal punto di vista meteorologico. Però il vigneto è in una posizione vocata (in collina N.d.A.) e raramente faccio più di due trattamenti di rame in tutto l’anno

Un altro mi diceva “La potatura ormai è minima, perché siamo in una posizione vocata (di nuovo N.d.A.) e le viti hanno più di 30 anni, quindi si equilibrano da sole

D’altra parte cosa vuol dire altrimenti “zona / cru vocata”? Cosa c’è di più forte di dire: “La posizione è talmente buona che l’interazione tra clima, terreno e vitigno è tale che io faccio poco o niente, fa tutto il vigneto”

Ai ballerini classici si insegna a mostrare solo la grazie e nascondere lo sforzo. Nel vino fare le cose senza sforzo è vissuta come una colpa.

Vi svelo un segreto: un altro dei miei clienti ha un’azienda agricola completa con vigneto, cantina, vacche da latte e relativi seminativi. Quando deve occuparsi di vigneto e cantina dice sempre che gli sembra di essere in vacanza rispetto agli altri lavori. In effetti non è che uno debba svegliarsi alle 5 di mattina tutti i santi giorni (sabati, domeniche, Natale, ecc…) per mungere le viti.

Conclusione

Comunicare qualcosa di originale dipende soprattutto (solo?) da noi.

Se anche ogni singola cosa non è esclusivamente nostra, lo diventa la combinazione di quello che facciamo meglio. E’ il concetto di Best Selling Proposition, che si oppone a quello classico di Unique Selling Proposition e trovate enunciato in questo mio post del 2008  

Per farlo però è necessario conoscere in profondità se stessi, perché solo così sarà possibile riempire la parola “autenticità” di contenuti veri, credibili e rilevanti per l’audience. Un lavoro che le cantine raramente fanno.

Le grandi marche invece l’hanno capito da molto, molto tempo e ci dedicano attenzione e risorse, sia umane che finanziarie. Perché non è vero che artigiano è sempre più autentico di industriale, ma è vero che originale e coerente sarà sempre più autentico di banale e dissonante. Se non ci credete chiedete a Coca Cola perchè nel 1985 la New Coke, che nei test di assaggio alla cieca era la preferita rispetto a tutte le cole, fu un tale disastro da mettere a rischio uno dei più forti marchi al mondo.

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