7 dicembre 2021
(di Giulio Bendfeldt) Prima delle quotazioni in Borsa, dei crowdfunding via internet, una proprietà diffusa delle cantine (cooperative escluse) esisteva già. Il modello dell’azionariato popolare è quello che scelse la rivista “Quattrosoldi” dell’Editrice Domus che offrì ai propri lettori la possibilità di acquistare una quota di un vasto possedimento in Toscana, col solo scopo di “prodursi il vino” senza passaggi intermedi. Cercava 150 soci, per un milione di investimento ciascuno. Ne arrivarono cinquecento (oggi saliti a 1700) e così Castello di Meleto – fattoria fortificata dei monaci benedettini e sino al Novecento residenza della famiglia Ricasoli fra Radda e Gaiole – passò di mano. Era il 1968 e i nuovi azionisti si ritrovarono mille400 ettari di terreno, un castello ed un borgo in perfette condizioni, e i primi 142 ettari di vigneto. Per molti anni, la produzione venne dedicata a diverse private label per poi orientarsi verso un proprio brand forti dello sviluppo del complesso residenziale (castello e borgo medioevale annesso sono oggi un agriturismo di eccellenza) e di una politica di zonazione che ha posto in risalto cinque diverse unità poderali, alcune delle quali registrate sin dal Settecento come vigneti di riconosciuta qualità. A questo si è aggiunta una decisa politica di sostenibilità ambientale: larga parte dei vigneti sono certificati biologici dal 2018, altri sono attualmente in conversione; l’energia è fornita da biomasse e fotovoltaico; in più è attivo un piano di tutela degli insetti impollinatori, aperto anche a sostenitori privati disposti ad investire in arnie di api affidate a Castello di Meleto che dopo cinque anni andranno ad ampliare la biodiversità della vasta proprietà. Il dividendo, in questo caso, sarà miele di ottima qualità. La parte della tenuta a boschi consente un allevamento di maiali Cinta senese allevati a brado ed alimentati da castagne e ghiande che recuperano sul terreno.
Poco più di cinquant’anni dopo, Castello di Meleto ha lanciato, appunto, il suo progetto di zonazione: gli studi sono stati avviati nel 2000 e sono risultati particolarmente complessi: territori diversi, esposizioni diverse, patrimonio genetico diverso (soltanto per il sangiovese si arriva a circa 90 vinificazioni separate). Ma i risultati di questo immane lavoro sono ben rappresentati da tre cru: il Chianti classico Gran Selezione Casi; il Chianti classico Gran Selezione Poggiarso e la Malvasia nera in purezza di Camboi, IGT Toscana. Abbiamo provato il millesimo 2017 dei due Chianti, un’annata molto calda e non particolarmente felice, ed il 2018 della Malvasia.
Casi
Sangiovese in purezza, coltivato ad un’altitudine compresa fra i 390 ed i 470 metri slm, con una duplice forma di allevamento: guyot da 5mila ceppi a Casi di Sotto ed alberello, sempre 5mila ceppi, a Casi di Sopra. La composizione del suolo, prevalentemente argilloso, cambia con arenarie ad ovest e galestro ad est . 3600 le bottiglie prodotte nell’annata. La complessità in vigneto viene riproposta anche nell’affinamento con un uso differenziato di botti di rovere di Slavonia da 30 ettolitri, di rovere francese da 50 hl e di tonneaux per una piccola frazione. Il risultato di tanta complessità è un Chianti di grande personalità, avvolgente e morbido, tannini densi, profumi e note di frutta rossa matura e fiori con una chiusura di liquirizia.
Poggiarso
Sale la quota dei vigneti di questo cru, nella foto qui sopra, posizionato poco più a sud di Casi: da 460 a 520 metri slm. Il terreno è composto da galestro con alberese che determina una gran presenza di scheletro. Una terra dura che richiese la dinamite per lo scasso. Anche in questo caso Sangiovese in purezza che da questo terreno porta con sé importanti sfumature di roccia e grafite; un vino molto più verticale del precedente con un unico affinamento in botti da 50 hl di rovere francese per 27 mesi. Un Chianti entusiasmante, molto elegante, con un finale più vegetale del precedente e note di frutta e viola molto caratteristiche.
Camboi
Si scende verso valle, la quota del vigneto s’abbassa a 360 metri slm circa; il vigneto è stato impiantato nel 2002 poco più a nord del villaggio di Meleto ed avrà la certificazione biologica a partire dalla vendemmia 2021 appena conclusa. Allevamento a guyot su un terreno di argille, galestro e arenarie. Il nome del vino è una contrazione di “campo dei buoi” (l’allevamento si è protratto sino agli anni Sessanta), ma potrebbe derivare anche da un personaggio romano (de Boius) che lo abitò molti secoli fa. In fondo, ci potrebbe stare… L’affinamento avviene tutto in barrique di terzo e quarto passaggio. Un vino molto coerente al suo vitigno con note di piccoli frutti rossi, profumi marcati di fiori e sottobosco, tannini morbidi. Non difetta di personalità. 3mila le bottiglie prodotte.